Amo il rumore dei passi sull’asfalto, il cadenzare ritmico tipico della camminata veloce.
La faccio quasi tutte le mattine. Quell’ora che riesco a ritagliarmi, prima che la mia vita si metta ufficialmente in moto, mi fa sentire come Alice nel Paese delle Meraviglie. Le cuffiette nelle orecchie mi separano dal mondo esterno, che scorre muto davanti ai miei occhi e io, da dentro la mia bolla personale fatta di fatica, sudore e battiti del cuore sincronizzati con diesis e bemolle, lo osservo con curiosità.
Ecco quella finestra con la luce sempre accesa. Intravedo una donna alta, con la coda di cavallo. Oggi ha un vestito leggero rosso. Muove piano le labbra, come se stesse parlando con qualcuno. Probabilmente è il suo gatto. Lo vidi una volta camminare sulla ringhiera, in equilibrio come solo i gatti sanno fare… e le persone che vivono sul filo della vita.
Come me.
Mi hanno sempre insegnato che la vita è fatta di doveri, «Devi essere brava, devi essere buona, devi essere onesta», ma non mi hanno mai detto esplicitamente «Devi essere felice». Che in fondo è la cosa fondamentale.
10 minuti sono trascorsi e i muscoli iniziano a far male, quel dolore sottile che ti gratifica nello sport.
In lontananza c’è il signore con il cane. Stamattina il suo animale zoppica un poco, come se non riuscisse a mantenere il passo. Ogni tanto si ferma ad annusare un angolo di asfalto e l’uomo, paziente, aspetta che abbia fatto. Il sole li illumina di lato, con quella luce calda tipica dell’alba, quasi a volersi scusare per essere sorto troppo presto. Io, dal marciapiede opposto e un paio di metri indietro, li guardo sorridendo.
«Li stai spiando, è così che si dice. Non imbrogliare, ragazza!» protesta la mia vocina interiore, quella che al catechismo mi insegnarono fosse la coscienza. Non vado molto d’accordo con lei, troppo spesso mi ha rimproverato anche quando non era necessario. Anche quando non era colpa mia.
Come davanti a quell’ecografo.
«Sei stata imperfetta, my dear.» mi disse, crudele.
«Fottiti!» le risposi dura.
Da allora ho smesso di ascoltarla. Anche perché l’ho chiusa dentro l’armadio, tra i fantasmi del passato e gli scheletri del futuro. Per sicurezza.
20 minuti sono trascorsi e il polpaccio manda i primi segnali di stanchezza al cervello. Lui riceve tutto e lo incita a non cedere, ad andare avanti ancora un poco. Come fa anche con me quando mi lamento che la mia vita inizia a essere pesante. Minacciando di fermarmi e sedermi a gambe incrociate per terra.
«Qua comando io.» sogghigna il cervello, «Quelle sono le uscite d’emergenza. Tienile d’occhio ma non credere di potertene andare via così facilmente.»
Più che un cervello, io possiedo un dittatore grigio.
Sulla porta del palazzo con le tende verdi c’è un fiocco rosa. È nata la bambina quindi! La ricordo quella coppia quando l’anno scorso fece il trasloco. Mai viste due persone così diverse tra di loro, almeno fisicamente. Tanto bella lei quanto bruttino lui. Riflettei quella volta su quanto fosse grande il senso dell’umorismo di Dio.
Me lo immagino tutte le mattine, insieme agli altri suoi Colleghi e Divinità, mentre va allo Stadio delle corse a fare scommesse.
«Scommetto 10 a 5 che vince il migliore, quello a cui ho levato il lavoro, la moglie e anche la speranza.»
E poi sta lì a vedere l’effetto che fa.
30 minuti sono trascorsi e faccio un check generale del corpo: il piede procede bene, il ginocchio manda un dolorino laterale ma tutto sommato è ok, il fiato resiste. Bene.
Posso continuare a guardarmi intorno. Invisibile tra i visibili. Mimetizzata dietro un paio di occhiali da sole. Che gli occhi son pericolosi.
Come quando incrociai quelli di una bambina. Il papà la teneva tra le braccia andando verso la sua macchina. Probabilmente da lì a poco l’avrebbe lasciato all’asilo o dai nonni o da qualche tata. La piccola sonnecchiava con un braccino intorno al collo dell’uomo e l’altro abbandonato lungo il suo fianco. Improvvisamente socchiuse gli occhi, incrociando i miei, e dentro lessi tutta la stanchezza di questo mondo. Avrei voluto chiederle scusa per non averle saputo consegnare intatto il mondo in cui ero cresciuta, di non aver saputo fare di meglio. Mi limitai a passare oltre, abbassando lo sguardo e la visiera del cappello.
40 minuti sono trascorsi e sono già al quinto brano dentro al lettore mp3, il concerto del mio autore preferito. Sono una sportiva atipica perché mentre gli altri ascoltano musica rock, per darsi la carica, io preferisco ascoltare pianoforti e archi rincorrersi tra di loro e, in sottofondo, le percussioni che pulsano e si coordinano con il mio respiro.
Osservo tutto, il marciapiede che si snoda sotto le mie scarpe, le macchine che passano in lontananza con dentro il carico di anime e gli aerei in cielo, che non sai mai se stanno atterrando o decollando. E forse è questa la magia.
Arrivo finalmente al bivio e penso per un istante che potrei questa volta prendere la strada a destra. Inizierei ad allontanarmi sempre di più, correndo, per inseguire quel punto all’orizzonte che prima è strada, poi è montagna e infine si perde a vista d’occhio.
Mi avvicino trotterellando alle due strade, che distano solo 10 metri, poi 5 e infine solo 1 metro.
Il pianista nelle orecchie insiste in un giro di note che ballano il tango con il violino.
50 minuti sono trascorsi.
Eccolo qua, davanti ai miei occhi.
«Sono davvero pronta a non fermarmi più?» mi domando anche oggi.
Il mio corpo risponde per me.
Svolto a sinistra.
Ancora una volta.
Per tornare a casa.
Ma non sono triste. Domani sarà un nuovo giorno. Riprenderò ad aggirarmi, invisibile tra i visibili, e a osservare il mio muto Paese delle Meraviglie. Sono sicura però che prima poi a quel bivio girerò a destra invece che a sinistra. Scoprirò allora che alla fine della corsa non ci sarà altro che il mio Cappellaio Matto che, ridendo, mi saluterà.
«Ciao, Alice. Ci hai messo solo una vita a deciderti. Adesso te ne resta un’altra per essere felice.»